Sui tumulti di Rosarno
ovvero su come e perché ringraziare i migranti e chiedere loro scusa.I) Le spiegazioni che non spiegano.
Sono trascorse alcune settimane dai fatti di Rosarno, ricostruiti ormai con dettaglio e commentati con dovizia, sui mezzi d'informazione; sicché è possibile fare il punto, per quanto provvisorio, su quel che è accaduto e sulle cause congetturali.
Diciamo subito che, per noi, i moti di Rosarno, sono un segnale precursore dello scenario, inedito e maligno, che sembra aprirsi per l'agricoltura meridionale, in particolare per quella delle grandi piane.
Invece, su quei fatti, gli opinionisti dei giornali del Nord hanno, di preferenza, cercato la genesi nella pulsione xenofoba, se non propriamente razzista, che abita l'anima calabrese; mentre i commentatori dei giornali del Sud hanno, per la gran parte, sposato la tesi secondo la quale tutto ha origine dalle cosche della 'ndrangheta: sono i boss che hanno fomentato la rivolta tanto tra i braccianti neri quanto tra i cittadini italiani della piana.
Noi riteniamo che entrambe queste spiegazioni finiscano col rendere ancor più confuso ciò che, in principio, avrebbero dovuto chiarire; e tutte e due approdano alla invocazione insana: più stato nel meridione; come se, a datare dall'Unità d'Italia e per centocinquanta anni questa strategia non avesse procurato abbastanza danni.
Vediamo le cose più da vicino. Fuor di retorica, tanto la xenofobia, ovvero la paura del forestiero, quanto il razzismo, cioè il disconoscimento della comune natura per colui che ha caratteri somatici diversi, entrambi i sentimenti o i risentimenti, essendo, purtroppo, generalmente umani, si ritrovano certo tra gli abitanti di Rosarno, come a Treviso, a Biella o nel Cantone dei Grigioni. Ma sostenere che questi deplorevoli pregiudizi siano talmente egemoni da determinare la sentimentalità dei calabresi è contrario ad ogni evidenza-- da secoli, nella nostra regione, distribuite a macchia di leopardo, convivono con successo minoranze diverse per etnia, lingua o religione; nel recente passato, cioè negli ultimi venti anni, si sono verificati rari casi d'intolleranza verso i forestieri, certo molti di meno di quanto sia accaduto nel resto d'Europa; e, viceversa, tanto a Rosarno quanto a Badolato, a Riace come a Soverato non sono mancate esemplari occasioni d'accoglienza e di solidarietà verso i migranti, come ben mostra l'ultimo film di Wenders.
Possiamo ragionevolmente concludere che il razzismo come chiave esplicativa risulta di una vaghezza frettolosa e frustrante.
Quanto alla 'ndrangheta, l'attribuzione di responsabilità nei fatti di Rosarno non proviene da inchieste o ricostruzioni o studi documentati; piuttosto è una assunzione congetturale, anzi mitica; argomentata, grosso modo, così: data l'onnipotenza demoniaca della 'ndrangheta, sia quel che accade sia quel che non accade a Rosarno è riconducibile, in ultima analisi, alla strategia malavitosa; i criminali non possono non sapere, quindi tirano le fila del gioco. Qui, la 'ndrangheta è divenuta una sorta di “causa assoluta”; v'è all'opera, in questo modo di ragionare, uno sprovveduto rovesciamento cognitivo che scambia gli effetti con le cause: non sono le condizioni socio-culturali delle città della piana a generare e rigenerare la 'ndrangheta ma, viceversa, è la criminalità stessa a produrre quelle condizioni.
Si noti che l'individuazione della 'ndrangheta come causa assoluta gode di particolare favore trai i professionisti dell'antimafia, per dirla con Sciascia. Questi, così, oltre ad assicurasi quattro paghe per il lesso, finiscono con l'assolvere dalle responsabilità specifiche in ordine alla degradazione della vita civile calabrese, i politici nazionali e locali, nonché tutto il ceto dirigente della regione, imprenditori, giornalisti e universitari compresi.
Val la pena sottolineare l'intrinseca inconsistenza di questa spiegazione: da una parte, la cattiva potenza della 'ndrangheta viene amplificata oltre ogni misura, attribuendole, nella rappresentazione, una strategia assai astuta ed un'efficacia paranoica; dall'altra le vengono addebitate azioni e gesti che si rivelano idioti, inconcludenti e suicidi, ancora prima che criminali.
Infatti, per dirne una, che tornaconto potrebbe mai avere la 'ndrangheta a fomentare rivolte nei territori che controlla? Stante la dimensione internazionale delle sue imprese, essa, con ogni evidenza, è interessata a svolgere i propri affari nella quiete sociale; quiete che, certo, non desidera l'arrivo massiccio di magistrati, forze dell'ordine, giornalisti e studiosi della domenica.
II) Il miracolo economico dei giardini e la condizione di vita del migrante.
Per noi, la genesi dei fatti di Rosarno va, di sicuro, cercata localmente; ma non già nella malavita piuttosto nella struttura economico-sociale del luogo.
Per ricostruire, per l'essenziale, questa struttura ci serviremo liberamente delle ricerche dei sociologi dell'Università della Calabria, in particolare cfr. Tesi di Antonio Sanguinetti, La resistenza dei migranti: il caso Rosarno, 2009, Unical).
Rosarno, cinquemila famiglie, ha da lungo tempo una economia incentrata sulla produzione agricola, in particolare oliveti ed agrumeti. La proprietà della terra, decisamente frantumata, è distribuita tra poco meno di duemila famiglie, ciascuna delle quali possiede in media un ettaro o poco più; insomma ad ognuna un “giardino”, come dicono a Rosarno. Fino a qualche hanno fa, vi erano oltre mille e seicento aziende agricole, quasi una a famiglia, che davano lavoro, più o meno continuativo, a circa tremila braccianti rosarnesi, poco meno di due per azienda. A partire dagli anni novanta e fino al 2008, i contributi finanziari europei per l'agricoltura meridionale venivano concessi in proporzione alla quantità di agrumi prodotta; questo faceva sì che per ogni ettaro il proprietario percepisse una sorta di rendita fondiaria annua, garantita dalla burocrazia europea, nella misura di circa ottomila euro per ettaro. Per i tremila braccianti v'era la protezione previdenziale dell'Inps: bastava che lavorare cinquantuno giorni, cinque in caso di calamità naturali, per aver poi diritto ad un assegno di disoccupazione per tutto l'anno.
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(autori: E. Della Corte e F. Piperno)
Migranti a Sud Italia: è troppo tardi per le scuse 
Ci sono migliaia di lavoratori immigrati che, da un decennio e oltre, mandano avanti il settore agricolo nel Mezzogiorno d'Italia; in luoghi che nella storia recente, dopo la seconda guerra mondiale, videro insorgere contro i latifondisti i contadini del Sud che, dopo secoli di sfruttamento, rivendicavano il diritto alla proprietà della terra. Passano gli anni e per lavorare quelle terre, che gli italiani non vogliono più curare, arrivano da paesi segnati dal colonialismo, guerre, dittature, migliaia di migranti, pronti a sfacchinare per noi, per far arrivare sulle nostre tavole frutta e verdura. Questo il primo apparente paradosso, un trabocchetto cognitivo che avvolge il Meridione: il lamento sul ritardo del Sud; le emergenze ambientali sempre un po' misteriose; pentiti e complotti; partiti defunti che continuano ad eleggere i loro finti rappresentanti; grande penuria di posti di lavoro per gli autoctoni e un fiume di soldi pubblici sprecati per tamponare la finta emergenza della disoccupazione. Sulla scena di questo teatrino il Sud fa il suo corso: i giovani disoccupati a differenza delle generazioni precedenti hanno studiato, si sono laureati non sono più disposti ad accettare lavori faticosi e sottopagati, si muovono tra lavori precari, protetti in ogni caso dalle relazioni parentali. Così, resasi indisponibile la forza-lavoro locale, l'avvento dei migranti è stata una vera manna per gli imprenditori meridionali: i migranti costano di meno, lavorano di più, accettano lavori pesanti, si ingaggiano a giornata dribblando oneri sociali e assicurativi. Ad oliare il modello dell'Italia meridionale- che si rispecchia in quello più largo dell'Europa del Sud (King, 2000, Kasismis 2006) – contribuiscono: l'illegalità diffusa, acuita da leggi comunitarie restrittive e pacchetti sicurezza nazionali; la diversità dei luoghi di provenienza dei migranti che facilitano la concorrenza al ribasso tra persone provenienti dai paesi dell'est Europa e l'Africa; la compresenza, a cui si accennava, di migranti e di altri tassi di disoccupazione o sotto-occupazione per gli autoctoni; l'assenza di politiche di accoglienza a livello locale.
Da molti anni il sistema agricolo meridionale succhia soldi pubblici dalle milionarie truffe delle false giornate di lavoro. Il raggiro funziona così: finte o vere imprese agricole registrano giornate lavorative a finti braccianti che possono così accedere ai sussidi di disoccupazione e agli altri contributi previdenziali (assegni familiari, maternità etc.). Nei campi, quelli veri, vengono, invece, spremute le vite senza nome e senza contratto dei migranti, costretti a vivere in condizioni di estrema indigenza. Qui l'ipocrisia italiana è ben sostenuta dalle farsesche politiche europee. Solo per riannodare brevemente alcuni eventi degli ultimi anni, molti sapevano delle condizioni disumane di vita dei migranti del Maghreb nel ghetto di san Nicola Varco vicino Eboli, così come di quelle degli africani alla Cartiera di Rosarno andata in fumo un anno fa, così come di dominio pubblico sono le notizie dei migranti presi a pistolettate, sempre a Rosarno, da due teste calde locali, o ancora degli omicidi di Castelvolturno, senza contare le angherie quotidiane, quelle meno veicolate dai media. Molti sanno che l'economia agricola italiana ed europea si regge grazie al lavoro dei migranti, così come l'edilizia, i lavori di cura and so on. Dietro il teatrino delle cerimoniose dichiarazioni di benvenuto del ministro degli interni Angelino Alfano e di Cecilia Malmstrom, con la retorica sugli scafisti criminali, si cerca di insabbiare una semplicissima verità: l'economia europea e più in generale quella capitalistica- si avvale fruttuosamente di condizioni semischiavistice, ne produce le condizioni di possibilità (frontiere, controlli, carcerazioni preventive, etc.).
Dinanzi a questo scempio, alla produzione sistematica di morti annegati, anche le anime più moderate capiscono che l'unica via d'uscita è quella delle proteste e del conflitto. Se inattese, sono state le rivolte dei migranti, i roghi, i cortei che hanno fatto seguito ai fatti di sangue, amplificate dal can can mediatico, che ha stimolato molte promesse fasulle, per poi ritrovarsi di nuovo come nel gioco dell'oca alla casella di partenza- ghetti, sfruttamento, e cattiva vita- sembra configurasi un nuovo scenario intorno alla costituzione di campagne di lotta portate avanti da reti di migranti e autoctoni. Qui la partita dipenderà da quanto la nuova intellettualità migrante saprà essere egemone e traghettare la vecchia europa fuori dal pantano del bieco opportunismo della politica di professione.
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(autore: E. Della Corte)
La nuda vita e il potere Sovrano: storie di Rom a Cosenza
Il tempo dei Rom tra i sedentari
Mercoledì 11 novembre 2009 la magistratura di Cosenza si è pronunciata sui provvedimenti di allontanamento per 93 Rom rumeni : un “piccolo” intoppo in una storia assai lunga, puntellata da ben altre tragedie. La vicenda si è chiusa con un lieto fine, le istanze di allontanamento non sono state accolte, anche grazie alla buona lena dell'avvocato D'Amico e dell'impegno delle associazioni.
Ma chiusa la vicenda giudiziaria, resta aperta quella delle condizioni di vita nel campo Rom.
In città, l'attenzione sulla questione Rom, si accende nell'inverno 2007, per una sciagura scampata. Allora vivevano nelle baracche di legno, sempre sul fiume Crati, poco lontano dal centro commerciale Gran Sole.
Fino al 2001, poco distante da lì, nella baraccopoli di via Gergeri e in quella di via Reggio Calabria, sull'altra sponda del fiume Crati, vivevano circa seicento Rom cosentini, arrivati dopo la seconda guerra mondiale da altre parti della Calabria; mentre altri ancora avevo ottenuto dal comune le case popolari a via Popilia. Nel 2001 ai primi, quelli di via Gergeri, vennero assegnate le case nel villaggio di via degli Stadi. Per gli altri, invece, quelli di via Reggio Calabria, la possibilità di dormire con un tetto sulla testa sfumò perché il proprietario dei terreni espropriati per la costruzione del villaggio, vinse il ricorso e rilanciò sull'acquisto della terra ad un prezzo insostenibile per le casse comunali.
Negli anni a venire arrivano i Rom rumeni e nell'inverno del 2007, chi percorreva via Gergeri e poi la superstrada che porta verso la stazione doveva per forza notare le loro baracche di legno coperte da teli di plastica azzurri o bianchi e le spirali di fumo che salivano dai fuochi accesi per sostenere il rigido inverno e cucinare. Per le molte piogge, il fiume iniziò a crescere e a quel punto la sonnacchiosa amministrazione comunale scese, finalmente, lungo il greto del Crati per portare in salvo quei Rom rumeni che trovarono un'accoglienza temporanea in posti diversi della città- associazioni di volontariato, abitazioni, etc. Finita la pioggia, le ruspe di gran fretta cancellarono le baracche. Poi, prosciugati i fondi stanziati per l'emergenza, calata la visibilità mediatica, molti ritornarono in autonomia a costruire con grande maestria le case sul fiume. Crebbe così una nuova baraccopoli, questa volta meno visibile della prima, alle spalle della motorizzazione civile, oltre il tracciato ferroviario, ai margini del fiume. Di nuovo donne, uomini, anziani e bambini scontano l'assenza di servizi per noi usuali come acqua, elettricità, servizi igienici; solo che questa volta la baraccopoli è meno visibile di prima, e anche se l'acqua del fiume d'inverno sale fino a lambire le case “occhio che non vede cuore che non duole”, così per due anni tutto scorre sotto silenzio. Gli abitanti del campo non mancano certo d'inventiva, ci si arrangia come si può: generatori a benzina; viaggi in bici o a piedi con carriole per riempire taniche d'acqua da portare al campo. Per vivere si accetta, come molti migranti, di lavorare in nero, sfruttati come forza-lavoro a basso costo nei cantieri edili della provincia, dove a fine mese può anche capitare di dover pregare o minacciare per avere il salario; tra le donne, invece, solo qualcuna lavora come colf o nei bar, altre raccolgono clementine nella zona di Corigliano, per le altre trovare lavoro è un'impresa difficile, perché nella maggior parte dei casi essere riconosciute come zingare riduce di molto l'opportunità d'occupazione.
Eppure si tratta di persone laboriose che sanno fare molte cose: riparare, costruire, aggiustare bici e motorini, riciclare, organizzare belle feste, ma questo conta poco o niente.
Il vuoto dell'amministrazione comunale e la scuola del vento
A marzo del 2009, dopo la pasqua ortodossa, festeggiata al campo con il pope, ci fu un primo incontro con l'assessora Bozzo per chiederle di intervenire urgentemente. Le richieste erano contenute: bagni chimici, allaccio dell'acqua e della luce -servizi per cui i Rom sono del resto disposti a pagare¬, smaltimento della spazzatura e cassonetti per la raccolta. Si fa presente all'assessora che in alti comuni d'Italia hanno costruito i campi attrezzati, o facilitato i progetti di autocostruzione, come a Padova, ma non c'è verso e la visita si chiude con un niente di fatto. Dopo poco ci riprova un abitante del campo a cui la Bozzo promette alcuni interventi urgenti, ma passano i giorni, i mesi e non succede niente, e così fino ad oggi.
(autore: E. Della Corte)